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La carica delle tasse «federali» Addizionali più pesanti del 573%

tasseIn 12 anni il gettito per i Comuni è passato da zero a 4 miliardi. Dall’Irpef all’Irap, alle tariffe: il conto del decentramento.

ROMA – L’ultima arrivata è Genova. L’Imu sulla prima abitazione passa dal 5 al 5,8 per mille, quella sulle seconde case affittate a canone concordato dal 7,6 al 9,5 per mille. «Senza l’aumento dell’Imu avremmo dovuto fare tagli dolorosi e insostenibili» ha spiegato il sindaco Marco Doria giovedì scorso, proprio mentre governo e maggioranza, riuniti a Palazzo Chigi, avviavano la discussione sulla riduzione della tassa sugli immobili. Ma che federalismo imbroglione è mai questo?
I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent’anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.«È un sistema ingestibile» ammette Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e oggi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, con il ministro Gaetano Quagliariello.Federalismo ingestibile.
«Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio, ndr ) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c’è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato» aggiunge Antonini. Prendiamo l’Imu. Negli ultimi due anni è cambiata tre volte, e presto ci sarà la quarta versione. Con il risultato che i Comuni faranno i bilanci preventivi del 2013 a settembre. E per far quadrare i conti, considerate le spese fisse e che tre quarti dell’anno sono già passati, non potranno che tagliare gli investimenti, gran parte dei quali sono stati decentrati agli enti locali. E pazienza se sono proprio gli investimenti che servirebbero per rilanciare la crescita economica.Il problema viene da lontano, da una riforma costituzionale che invece di fare ordine ha fatto esplodere il conflitto di competenze tra i vari livelli di governo e che oggi il nuovo esecutivo vuol correggere. Dai tagli lineari degli ultimi anni, che come dice Antonini «hanno colpito senza criterio, finendo per penalizzare gli amministratori virtuosi e premiare gli incapaci. Facendo crescere irresponsabilità ed inefficienza». E anche dal federalismo fiscale, avviato e lasciato a metà del guado, tanto che gli stessi saggi del presidente della Repubblica, Giorno Napolitano, hanno inserito il completamento del processo tra le priorità assolute dell’agenda di governo. Che punta dritto alla revisione della Costituzione, con il riordino delle competenze tra i vari livelli di governo.

Policentrismo anarchico.
Del resto, in questo federalismo non si sa chi fa che cosa, e la confusione regna sovrana. «Sono dieci anni che deve essere approvata la Carta delle Autonomie – sottolinea Antonini -, sono vent’anni che devono essere costituite le città metropolitane. Il decentramento significa avvicinare il più possibile ai cittadini la porta cui bussare quando le cose non vanno più. Ma invece del federalismo fiscale, invece del decentramento, abbiamo creato un policentrismo anarchico». Dove ognuno fa quello che gli pare. Pensiamo alle opere pubbliche: ogni ente locale mette un veto, e ogni veto costa. Tanto, tantissimo. Un esempio? «Costruire un chilometro di linea ferroviaria – racconta ancora Antonini – costa 13 milioni di euro in Francia, 15 in Spagna e 50 in Italia».

Sarà il Titolo V, la mancanza di coordinamento, saranno i tagli lineari o la confusione istituzionale, resta il fatto che agli italiani il federalismo riserva soltanto dolori. Tanto per dire. L’anno scorso, primo anno di vita della nuova Imu, il 25% dei Comuni ha aumentato l’aliquota di base (per un totale di 3,8 miliardi di maggiore incasso). Quest’anno, oltre a Genova, già a inizio di maggio il 17,6% dei Comuni italiani aveva deliberato l’aumento per quest’anno delle tasse sugli immobili. Tra il 2011 ed il 2013 l’80% delle Province ha provveduto ad elevare al livello massimo, il 16%, l’imposta sulle assicurazioni. Secondo uno studio della Uil, poi, dopo l’impennata degli anni scorsi è molto probabile per il 2014 un nuovo incremento delle addizionali Irpef regionali: quasi 5 miliardi in più, altri 140 euro l’anno da pagare per ogni contribuente.
Tra il 2000 ed il 2012 il gettito delle addizionali regionali è passato da 2,5 a 10,6 miliardi, quello delle sovrattasse comunali da 500 milioni a 4 miliardi, l’Ici/Imu da 8,4 a 22,6 miliardi, l’Irap da 27 a 33 miliardi. Senza contare le tariffe dei servizi pubblici come la raccolta rifiuti, gli asili nido, il trasporto locale.

150 miliardi di tagli.
Un salasso. Che tuttavia non è difficile spiegare, perché in questi venti anni che hanno visto crescere la spesa e le tasse a livelli esponenziali, sia al centro che in periferia, l’unica cosa rimasta al palo sono i trasferimenti dello Stato agli enti locali. Erano 72 miliardi nel 1992, e 86 miliardi l’anno scorso. Un 20% in più, a fronte di una spesa lievitata nel frattempo del 125%, da 90 a 205 miliardi.
Al giro di vite sui trasferimenti, negli ultimi anni, si è sommata la stretta sul patto di Stabilità interno. Tra il 2009 ed il 2015, per effetto di misure già prese, i tagli su Comuni, Province e Regioni ammonteranno a 149,9 miliardi: 61,6 miliardi di trasferimenti in meno e 88,3 miliardi sul patto di Stabilità interno. Logico che poi i sindaci ed i governatori aumentino le tasse.

Detroit fallisce, Napoli vive.
Tanto più che nel federalismo all’italiana non c’è neanche il rischio di dover pagare cara una simile scelta di fronte ai propri elettori. Anzi. Il sacrosanto principio del «fallimento politico» introdotto dai decreti del federalismo, che ad esempio portavano all’ineleggibilità per dieci anni dei governatori responsabili del dissesto della sanità regionale, è stato prima edulcorato in Parlamento, poi cassato dalla Corte Costituzionale appena tre giorni fa. Siamo al paradosso che, nel caso i conti della sanità andassero a rotoli, gli stessi governatori regionali che magari hanno causato il disastro, in base alla legge attuale vengono nominati Commissari. Saltando a piè pari pure il ruolo del consiglio regionale. Ancor peggiore è stata la sorte delle sanzioni politiche immaginate per i sindaci incapaci. Che come i governatori, invece di essere puniti per la cattiva gestione, oggi vengono premiati.

Merito di un emendamento passato in Parlamento alla fine dell’anno scorso nell’indifferenza generale. Il dissesto guidato, la procedura che portava i Comuni ad una sorta di concordato preventivo, ed i sindaci verso l’addio alla vita politica, è stato rivoluzionato. Sbagli e ti cacciano? Ma quando mai: se il Comune è con l’acqua alla gola il sindaco va a bussare cassa a Roma. E lo Stato gli dà un bel prestito decennale (a carico della fiscalità generale) e la garanzia che a lui non succederà proprio niente. Detroit fallisce e porta i libri in tribunale. Napoli e Reggio Calabria galleggiano.

di Mario Sensini
Corriere della Sera.it

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