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LAVORO, 6 MORTI IN UN GIORNO MA ORMAI NON FA PIÙ NOTIZIA

morti_sul_lavoroLA STRAGE SILENZIOSA TROPPO SPESSO IGNORATA DAI MEDIA DALL’INIZIO DELL’ANNO SONO GIÀ DECEDUTE OLTRE 170 PERSONE.

Se un lavoratore subisce un infortunio sul lavoro, magari poteva stare più attento. Se muore, se l’è cercata. Diciamo come stanno le cose: i morti sul lavoro non interessano. A cominciare dai giornali che spesso non hanno spazio per scriverne su quelle stesse pagine tracimanti di chiacchiere dell’ultimo/a parvenu della politica. Morire lavorando è una “non notizia”.
A CHI POTREBBE mai interessare la vita dell’operaio di 45 anni di origine albanese rimasto folgorato dai cavi elettrici della linea che costeggia una strada in provincia di Alessandria? E la storia di Giovanni Cornacchia, travolto a 54 anni da un convoglio ferroviario di Monfalcone, o di Massimo Vianello conducente del taxi acqueo schiantatosi contro la darsena delle fondamenta nuove di Venezia? Chissà cosa stanno passando i familiari di Piergiuseppe Zanesi, l’elettricista53enne deceduto a Cremona cadendo da una scala o ancora quale sarà stato l’ultimo pensiero di Fernando Belli (55 anni) di Roccamontepiano ucciso dalla pressa alla quale stava lavorando e infine come sarà la vita della famiglia di Giuseppe Mastrullo di 49 anni, agricoltore di Cerignola schiacciato dal suo stesso trattore? Sei lavoratori morti nello stesso giorno in cui a Genova si ricordavano le vittime dello speronamento della Jolly Nero. Dall’inizio dell’anno i decessi sul lavoro sono stati 172, di cui: 33% in edilizia, 31% in agricoltura, 17,5% nei servizi, 6,5% nell’autotrasporto e 5,5% nel-l’industria percentuale apparentemente bassa che risente delle molteplici chiusure. Per le stime se a questi 172 si aggiungono i decessi stradali per raggiungere il posto di lavoro, si raggiunge tranquillamente quota 300.    Il sacrario virtuale dei caduti sul lavoro nella home page dell’Osservatorio indipendente di Bologna attivo dal primo gennaio 2008, è inesorabile. Da quel giorno ha infatti contato oltre 5000 morti di cui 2553 sul lavoro e i rimanenti sulle strade. I cosiddetti “in itinere” nel perenne paradosso in cui chi muore durante il trasferimento da e per il posto di lavoro viaggio stenta a essere riconosciuto dalle percentuali ufficiali. Beppe Giulietti, portavoce di Articolo21, da sempre in prima linea sulla questione è chiaro: “Stiamo parlando di un argomento che diventa interessante solo se può essere risolto con espressioni quali tragica fatalità, destino cinico e baro, riassunto con le inquadrature delle lacrime dei familiari, ma sempre che si tratti di un incidente in cui muoiono almeno cinque persone. Viene derubricato invece, quando si tratta di affrontare temi come lavoro in subappalto, irregolare e di mera organizzazione e impiego di persone”. Nel 2012 sono morti 1180 lavoratori. Molte vittime non avevano alcuna assicurazione e lavoravano in nero.
E SE LA POLITICA sulla sicurezza sul lavoro risulta non pervenuta, i sindacati talvolta assumono comportamenti come quelli denunciati da un portuale a Genova: “Ci dicono di continuare a lavorare nello stesso posto dove stanno ancora cercando i nostri compagni”. L’unico ricorso alla Commissione europea in tema di salute sul lavoro è stato presentato da Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico, che conduce la sua battaglia in solitaria dalla quale è scaturita l’ennesima procedura di infrazione per l’Italia. Ma ogni Governo fa spallucce. Secondo alcune indagini si muore anche quando le fabbriche sono chiuse durante i lavori di manutenzione che vengono spesso affidati a lavoratori improvvisati che pur di raccattare due soldi sono pronti a svolgere mansioni che, al contrario, richiederebbero specifiche competenze. Ma il peggio arriva dopo, sia per le famiglie che per i superstiti. Solo ieri una donna di 42 anni si è incatenata davanti al Tribunale di Bari. Da oltre 7 anni attende l’esito della sua causa di invalidità per l’incidente in cui rimase schiacciata da un carrello di 10 quintali. Si salvò riportando danni fisici permanenti. Tre mesi in terapia intensiva avevano costretto il marito a lasciare il lavoro per accudire i tre figli. Lui è ancora disoccupato, lei attende giustizia.
di Elisabetta Reguitti
Il Fatto Quotidiano 11.05.2013

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